È superfluo e ripetitivo spiegare ancora una volta la storia del Karate italiano e dell’artefice che l’ha portato a questo grandioso successo anche perché largamente illustrato e chiarito dalla bibliografia in generale. Tralascerò quindi volutamente di esaminarne quest’aspetto.
Preferisco invece prendere in esame il movimento in sé, quella gestualità tecnica e stilistica e quei concetti classici-tradizionali tramandataci dalla scuola alla quale molti di noi sono appartenuti e dalla quale, nonostante il nostro lungo percorso formativo, riesce difficile discostarsene, finendo un po’ troppo spesso per proporre in modo ortodosso gli stessi schemi e la stessa cultura, quasi per timore, altrimenti, di svalutarne il significato. E questa limitazione purtroppo conduce inevitabilmente a un insegnamento che, restando immutato nel tempo, finisce col rappresentare solo parzialmente questa grande anima che è il Karate Classico Tradizionale.
Inoltre, per sfortuna, il nostro karate non è più in linea con i tempi e anche cercare di rincorrere i probabili praticanti non è certamente onesto oltre che svilente
Dovremmo in realtà provare a pensare a quest’Arte Marziale in termini più spontanei, più veri, nel senso che, trattandosi appunto di Arte, come giustamente tutti affermano, è legata indissolubilmente alla ricerca e allo studio di chi la conduce; il Maestro.
Questa figura è effettivamente l’unico motore vero del movimento, colui in grado di infondere nei praticanti entusiasmo, coinvolgimento e passione .
Spesso l’incertezza di alcuni Maestri (peraltro molto preparati tecnicamente) di manifestarsi liberamente, porta ad un impantanamento della pratica e della ricerca. Significa, in termini concreti, la paura di uscire da schemi obbligati ma sicuri e collaudati, che un cliché, magari pieno di lusinghe, ha cucito loro addosso.
E non osano andare oltre uno studio, sicuramente profondo e accurato, ma ancorato solo a quella parte obbligata che è il perfezionamento, comunque assolutamente necessario , specifico delle Arti Marziali Orientali.
Vedo intorno troppo tecnicismo superficiale dove si pone troppo l’attenzione su una mano posizionata più alta o più bassa. Questo può funzionare per la competizione, dove è naturale un “impoverimento” o una “esasperazione” della tecnica se ciò diventa sintesi estrema o “ampio respiro” del movimento, allenato per ottenere il punto.
Ma la “vera lezione” dovrebbe assolvere a compiti ben più complessi e basilari.
Ritengo, che il Karate Tradizionale ci dia tutti i mezzi necessari per affrontare, totalmente le domande dei nuovi praticanti. Basta considerare l’enorme patrimonio tecnico-motorio-dinamico di cui possiamo fruire da tanti altri punti di vista.
È in quest’ottica che cerco di trovare costantemente soluzioni e idee nuove per l’allenamento, attraverso un programma ben definito e articolato che produce nel tempo risultati pratici e visibili, sia in senso tecnico, fisico, e psicologico.
LA PARTE DEDICATA ALLA SENSIBILITA’ DEI COLPI
E’ dal 1980 circa che mi pongo e ricerco in questo senso. Erano passati appena 6 anni dall’inizio della mia pratica, quando cominciai a nutrire dei seri dubbi sull’uso del Makiwuara. Vedevo sì le mie mani indurirsi ma nel contempo avevo sempre più difficoltà a tenerle aperte e tese. Le articolazioni delle mie mani si erano “semplicemente” danneggiate e allora cominciai ad usare il sacco in sostituzione del Makiwuara, ovviamente a mani nude, quasi di nascosto, perché c’era la convinzione che l’ uso del sacco con le mani rovinava l’efficacia della tecnica del pugno, ma continuai ugualmente, proprio perchè sentivo la necessità di capire la dinamica del movimento che mi veniva abbondantemente spiegata a vuoto sul concetto del colpo.
La contrazione e decontrazione, ecco la vera anima dell’efficacia.
Da 10 anni, quando studiamo le dinamiche dei colpi, durante lo svolgimento dei miei corsi, usiamo attrezzi relativamente morbidi, dove scarichiamo le tecniche; non mi dilungherò tuttavia ad elencare i lati vantaggiosi di questo tipo di allenamento, in quanto del tutto personale, e non indicativo per nessuno. A mio avviso, comunque, questo percorso fa acquisire al praticante una sensibilità corporea migliore rispetto al non contatto.
Questo porta ad uno studio del kumite un po’ diverso dall’idea ortodossa e comunque legata quasi esclusivamente alla competizione. Il contatto che viene provocato senza bisogno di troppe protezioni, salvaguardando la faccia, è necessario e fondamentale per la comprensione della tecnica; lentamente si attenuano le paure dei colpi, e il praticante riesce a raggiungere una consapevolezza diversa della sua tecnica, e comunque non pensa più ad un colpo solo, ma ad una concatenazione di colpi che varia costantemente la distanza.
KATA E KION
Ritengo e continuo a credere che solo lo studio incessante di queste 2 caratteristiche del Karate tradizionale, porti effettivamente ad un miglioramento che non si perde con il passare della vigoria fisica. È in effetti uno studio che può trascendere dalla fisicità, consentendo un lavoro sulla mente e sugli stati più profondi del nostro respiro, al fine di liberare tensioni e blocchi nascosti.
Le possibilità su questo lavoro sono infinite: considerando i 26 kata dello shotokan, con le relative varianti, possiamo raggiungere innumerevoli ripetizioni .
È proprio sulle varianti, che personalmente scopro nuovi e fruttuosi stimoli per il Kion: le rotazioni che inducono il controllo assoluto del corpo, le posture corrette, le posizioni con i piedi sempre bene a contatto col suolo, le spalle rilassate, il baricentro che spinge verso il basso la sua forza, la respirazione più attenta con un Kime vero, profondo e non gutturale. Ecco che si attivano i meccanismi, per rotazioni e spostamenti, fluidi e dinamici, con un controllo del corpo sempre più cosciente.
Credo fermamente, e non solo io, che l’idea del Bunkai dei Kata, sia assolutamente personale, proprio perché rientra in quella logica di studio di cui mi sono già espresso. Da anni cerco di dare e darmi spiegazioni chiare su questo tipo di pratica, che reputo basilare per comprendere i significati più profondi delle tecniche. E’ proprio in quest’ottica, ed anche attraverso le dinamiche esecutive dei Kata, con le sue molteplici varianti, che possiamo effettivamente pensare al Bunkai in termini veramente efficaci. Lo studio e la pratica incessante, porta ad una inevitabile crescita, sia sul piano tecnico che quello spirituale.
Il Maestro che ricerca e lavora, mettendosi in discussione con l’umiltà del praticante, ha dalla sua un’ arma in più rispetto a chi si occupa, comunque degnamente, solo di insegnare. Egli mantiene il suo spirito modesto, come è necessario in una proficua ricerca che imponga la pratica personale. Ciò rende superflue lusinghe e appariscenti gratificazioni . Nella assoluta convinzione che ognuno di noi ha sempre da imparare da qualcun altro, e che la formazione è infinita, credo che dopo anni di fruttuoso allenamento, (più di venti nel mio caso) con Maestri di alto livello , si debba perseguire la costruzione di una propria identità. Questo processo di crescita è reso possibile solo dalla pratica, dall’esperienza, dalla ricerca e dallo studio. Così è stato ed è il mio percorso, in solitudine, spesso molto duro, ma anche fortificato dalla serena consapevolezza di essere sempre presente a me stesso lungo un cammino che non conosce termine : perché ciò che conta è il viaggio, non la meta. Questa è la mia spiritualità e la mia idea di questa Arte Marziale Orientale.