Kihon è formato da due parti o kanji (ideogrammi): KI è lo spirito, l’energia interna o vitale, mentre HON significa fondamentale e racchiude lo studio della tecnica di base.
Se ci limitiamo alla semplice traduzione nulla di complicato, mentre per comprendere il significato conforme ad una condizione più interiore che fisica, dobbiamo servirci di altri elementi importanti.
Intorno agli anni ’60, quando il karate era agli albori, soprattutto nel centro Italia, causa svariate personalizzazioni sul modo di interpretare la disciplina, si usava descrivere l’allenamento del kihon con il termine “passeggiate”. Questo modo bizzarro scaturiva da come si praticava lo studio della tecnica di base. Gli spostamenti e i passi eseguiti avanti e indietro, svuotati del significato spirituale, si trasformavano in movimenti puramente meccanici. Questo appiattimento nasceva dalla monotonia con cui veniva proposto l’allenamento del Kihon.
C’era uno scarso interesse verso l’insegnamento delle tecniche di base. Si prediligeva un lavoro impiantato esclusivamente sul kumite dove in un’ora di lezione, 15 minuti di taiso (ginnastica preparatoria) via con le protezioni e jiyu kumite. Sembrava quasi che il kihon e il kata fossero una sorta di sotto prodotto ed erano avvertiti come un momento scomodo e fastidioso vissuto guardando continuamente l’orologio nella speranza che la lezione finisse prima possibile.
Le continue ripetizioni e combinazioni dei calci e dei pugni, poco giustificate dalla ricerca di un miglioramento tecnico (HON), non producevano quel coinvolgimento e quella motivazione, che spingeva all’utilizzo della carica interna unita alla voglia di migliorare.
In assenza di queste componenti l’allenamento del kihon si trasformava in uno lavoro unicamente fisico certamente poco costruttivo.
Man mano le cose sono cambiate, tanto lavoro è stato fatto sulla divulgazione di una pratica orientata in modo diverso. Ma anche ai nostri giorni spesso capita di assistere in allenamento, agli esami, ad esecuzioni distratte, scarsamente motivate spesso approssimate, eseguite in totale assenza di KI.
Al praticante attento non sfuggono queste situazioni e ne è quasi sempre infastidito.
A questo punto c’è da chiedersi quali siano le condizioni per calarsi in una pratica dove la presenza del KI è costante. Spesso si è portati a credere che solo un allenamento duro, con momenti di massima energia è il solo mezzo per disporre del KI. Se non utilizzo in ogni istante la massima forza non sono convinto, non manifesto egregiamente il KI.
Questo in parte è vero, ma è bene comprendere che l’esecuzione rappresenta il mezzo per sentire l’energia che fluisce lungo il nostro corpo sia in un movimento esplosivo sia in quello più lento e fluido.
Senza dubbio i movimenti dei kata aiutano la comprensione di questo concetto. Nel movimento lento ho la possibilità di elaborare con più attenzione le sensazioni generate dai tendini, muscoli e articolazioni. Nel movimento esplosivo, sento come rispondono le componenti muscolari in una manifestazione di forza in un tempo brevissimo, mentre percepisco l’equilibrio corretto e l’adeguata respirazione.
Se lavoro con attenzione nel tempo arrivo a capire che queste sensazioni sono generate dal KI.
Se la manifestazione del KI, fosse legata solo ad una componente di forza, potremmo dire che il TAI CHI sviluppa le sue tecniche in assenza di KI mentre sappiamo che questo non è assolutamente vero.
Se proviamo a chiamare il KI con un termine comunemente conosciuto come “forza di volontà”, sicuramente otteniamo un risultato migliore. La forza di volontà rappresenta l’unico modo per non mollare in tutti i contesti della vita. Aiuta ad oltrepassare l’aspetto fisico. Ci prepara a far fronte a situazioni dove non possiamo permetterci errori, oppure in tutti quei contesti dove una nostra scelta, un nostro sbaglio o uno scarso impegno compromettono tutti gli sforzi.
Proviamo adesso a trasferire questo concetto nella nostra disciplina. Il Maestro propone un tipo di tecnica, di applicazione, di difesa o altro. Non ho compreso bene, come inizio ad eseguire incontro tante difficoltà. Se non interviene qualcosa che va oltre l’impegno fisico non ottengo nulla. In questo caso riuscire nell’utilizzo del KI, vuol dire combattere contro quello che da un punto di vista tecnico non so fare.
Il Maestro propone un lavoro molto intenso. Man mano che vado avanti avverto una gran fatica. Il corpo dice di fermarmi. Invece non mollo, continuo e lo faccio tirando fuori la mia carica interna. Il KI ancora una volta rappresenta il modo di sopperire a questo momento intenso della pratica.
Il KI è spesso utilizzato anche senza rendersene conto. Questo con grande percentuale si riscontra nell’allenamento degli atleti agonisti sia di kata sia di kumite.
L’allenamento è finalizzato a vincere pertanto per incrementare le capacità condizionali, (velocità, forza rapida, resistenza) gli atleti sono sottoposti a carichi intensi di allenamento, dove i momenti più duri, vengono affrontati con la carica vitale e l’energia interna di cui stiamo parlando.
L’osservatore profano, nota solo una manifestazione esteriore dell’utilizzo del KI, quella che tutti riescono a vedere, e che è espressa come forza fisica.
Di nuovo ci troviamo ad affrontare un’altro problema che complica la comprensione del KI.
Per capire meglio, facciamo un esempio su un atleta di kata e poi su quello di kumite.
Per un’atleta che vuole arrivare sul podio, in ogni seduta di allenamento, ripetere continuamente i kata che esegue in gara senza stancarsi deve rappresentare il modo corretto di porsi. Il termine stancarsi è riferito ovviamente al coinvolgimento mentale perché dobbiamo dare per scontato che da un punto di vista della resistenza l’atleta deve essere in grado di ripetere lo stesso kata almeno tre volte di seguito senza raggiungere la soglia anaerobica.
Quando ci si accorge che l’atleta sta andando incontro alla stanchezza mentale, vuol dire che si sta esaurendo la carica interna. In questo caso è meglio smettere di allenarsi perché le tecniche del kata si stanno trasformando in movimenti ginnici.
Veniamo ora al kumite.
Due atleti sono in coppia. Stanno provando uno schema, non importa il tipo. Gli schemi del kumite, possono essere semplici o complessi, ma in entrambi i casi per riuscire nell’intento di utilizzare in gara le tecniche studiate in allenamento, l’atleta deve unire il movimento corretto al KI.
Prendiamo come esempio uno schema apparentemente semplice: eseguire gyaku tsuki al cambio guardia del compagno. Se il tempo di ingresso dello tsuki avviene anche di poco dopo il cambio guardia, c’è uno scarso coinvolgimento del KI. Se invece, voglio colpire di tsuki nel momento preciso del cambio guardia, l’attenzione che devo mettere è legata al KI. Se poi, voglio arrivare ad intuire il momento in cui il mio compagno cambierà guardia, sappiamo che dobbiamo parlare di percezione, la quale può essere attivata solo dal KI, mai da qualcosa di esteriore, come la forza fisica o altro.