Tutti gli insegnanti di karate, iniziando dagli Allenatori fino ai Maestri più evoluti nelle loro lezioni hanno sempre enfatizzato messo in risalto e predicato, un uso corretto delle anche per ottenere una tecnica efficace di karate. Spesso purtroppo alle corrette enunciazioni, non sono associati altrettanti validi esempi pratici.
Eppure il cardine di tutta la pratica sta proprio nei movimenti del bacino. Mai come in questo caso possiamo affermare che tra la teoria e la pratica c’è una distanza enorme. Da quando è nato il mondo, “dire” è sempre stato più facile di “fare” soprattutto in questa disciplina che come abbiamo spiegato in altri articoli, ottenere un gesto raffinato non è cosa da poco. Spesso ci si va ad incastrare in esami sofisticati e complessi per dan e qualifiche quando basterebbe far mettere il candidato in posizione Heiko Dachi e far portare in modo alternato chudan choku tsuki (pugno diretto) per capire se utilizza le anche in modo corretto. Il motivo di una difficoltà così evidente è dovuta principalmente ad una scarsa capacità di gestire tutte le componenti che concorrono a generare movimenti rilevanti sotto il profilo tecnico.
E’ un elenco molto lungo: respirazione, contrazione e decontrazione muscolare e loro sincronismo, attivazione corretta delle catene muscolari impegnate nella tecnica specifica, attivazione dell’energia che genera la potenza della tecnica, velocità e compenetrazione della parte superiore ed inferiore del corpo unita dal tanden (le anche). Il problema più grande è dovuto alla difficoltà di gestire una contrazione muscolare adeguata che controlla l’unione delle componenti di forza.
Le cose cambiano quando si arriva a capire che l’efficacia e la potenza di una tecnica non sono proporzionali ad un impegno e una contrazione muscolare esagerata bensì ad una velocità sempre adeguata alla quantità di forza che si vuole sviluppare. Ad esempio, se voglio portare una tecnica al mio 30% di intensità, devo essere in grado di concentrare questa quantità di energia che ho stabilito in modo totale. In questo caso il “totale” corrisponde al 30%. Nel caso contrario assistiamo ad una dispersione di energia che genera sicuramente un problema tecnico, amplificato guarda caso da un uso anomalo delle anche. Il loro utilizzo corretto contribuisce a concentrare l’energia la quale si genera o con vibrazione o con rotazione delle anche.
Visivamente si intuisce la differenza, ma spesso la scarsità della manifestazione fisica dipende da una carenza nella gestione delle componenti che abbiamo elencato sopra. Nella vibrazione delle anche più che nella rotazione avvertiamo una sensazione di disagio quando sentiamo debole la tecnica. Ci rendiamo conto che manca qualcosa. I più fortunati piano piano insieme al maestro attento e preparato forse riescono anche ad individuare ciò che manca, ma rimane il problema di non riuscire comunque a sentire la tecnica nel modo corretto. Il processo di apprendimento e perfezionamento a questo livello, implica una grande forza di volontà e un impegno vero a voler arrivare a questo traguardo, che è sempre stato per pochi. Quando si arriva ad un punto così importante della pratica, ci si accorge di essere giunti ad un modo nuovo di sentire il karate.
Quel gesto o movimento che per tanto tempo ha vinto nella lotta contro noi stessi, viene finalmente compreso e gestito con una nuova consapevolezza. Non a caso questo cambiamento è associato ad una crescita sull’utilizzo delle anche. Dopo tanti anni di pratica e di insegnamento ho potuto constatare che per molti karateki, il tempo trascorre ma il livello tecnico rimane invariato. Cresce l’esperienza nell’approccio alla pratica, all’insegnamento ma il livello tecnico non migliora.
Come un lavoratore che dopo trent’anni si comporta allo stesso modo o commette gli stessi errori di quando ha iniziato. A mio avviso ci sono due aspetti che vanno considerati per capire i motivi legati a questa stasi tecnica. Il primo lo diciamo per rimarcare il concetto anche se è scontato perché riguarda la volontà del singolo di migliorare. Il secondo aspetto è legato al modo e metodo con cui ci si allena. Sul primo non c’è molto da fare perché è legato alla soggettività e alcune volte anche alla presunzione di credere di essere ad un livello molto alto quando invece si è appena sufficienti. Possiamo chiamare questi praticanti “allievi evoluti” piuttosto che “Maestri”. A questo punto non resta che lavorare sul secondo aspetto che abbiamo considerato perché è l’unico mezzo che porta ad una crescita tecnica considerevole. All’inizio, o anche dopo qualche anno di pratica la tendenza è quella di voler conoscere i kata, imparare la sequenza di altri, e questo può essere comprensibile. Giunti però ad un discreto numero di anni di pratica che possiamo identificare in 10, 15 forse è il caso di cominciare a fare delle verifiche sul movimento delle anche.
Se umilmente ci si accorge che molti aspetti non sono stati ben assimilati probabilmente è il caso di rivedere il metodo di allenamento. Questo argomento verrà affrontato nei prossimi articoli.
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